IL PATTO SUICIDA DEGLI U’WA

AGGIORNAMENTO: Il 3 maggio 2002, l’Occidental Petroleum ha annunciato il ritiro dei progetti di trivellazione petrolifera sulle terre degli U’wa, dichiarando che laggiù non c’è petrolio. I diritti petroliferi e minerari ritornano nelle mani del governo colombiano, che in futuro potrà vendere o estrarre a piacimento e legalmente quelle risorse.



John Vidal riporta che gli U’wa della Colombia hanno uno stile di vita dedito a mantenere vivo il pianeta. Per loro, la trivellazione delle loro terre ad opera delle compagnie petrolifere internazionali equivale alla fine del mondo.

Gli U’wa sono uno dei popoli più remoti e mistici del Sud America. Essi ritengono d’abitare le foreste alla base delle Ande della Colombia nord-occidentale fin dall’alba del mondo, e non hanno quasi avuto contatti con il mondo esterno fino a circa 40 anni fa. Nella loro lunghissima tradizione orale non esistono resoconti di guerre combattute tra loro o con altri, né di inquinamenti ad essi ascrivibili, né di appropriazioni di qualcosa che non fosse già loro da sempre. Eppure ora questa società indipendente che crede di esistere solo per prendersi cura dell’armonia del mondo si trova a dover fronteggiare l’apocalisse a causa delle strade di penetrazione costruite nei loro territori dalle compagnie petrolifere inglesi e americane.

Per raggiungere la piccola comunità u’wa nel cuore delle montagne, si devono abbandonare le pianure della Colombia, guadare molti fiumi, quindi seguire le piste che conducono ai campi ricavati 35 anni fa dai coloni abbattendo le foreste. Lì giunti, occorre attendere diversi giorni ai confini del territorio degli U’wa, sperando di guadagnare la fiducia dei loro leader spirituali. Se e quando quella fiducia viene accordata, è necessario affrontare un’altra lunga camminata attraverso le paludi, la boscaglia e la jungla, fino a raggiungere una collina scoscesa quasi verticale, alta 500 metri. Si devono quindi seguire i torrenti di montagna risalendo il pendio, guidati dai machete e da farfalle di un blu luminoso grandi come fazzoletti. Di quando in quando, il sole fa capolino tra il fogliame denso, ma il più delle volte non si riesce neppure a immaginare che oltre la vegetazione possa esistere un mondo. Sfiniti, tra graffi e morsi, alla fine si emerge sulla cima della collina. Le nubi incombono come fumo sui lati della vallata sottostante. Alle spalle, il grande fiume Cobaria s’allontana serpeggiando verso l’Orinoco e il bacino delle Amazzoni; a nord si trova il Venezuela e le montagne sempre più alte che portano sù, fino alla Sierra Nevada de Cocuy e ai suoi picchi innevati. In epoca pre-coloniale, gli U’wa disponevano di un’area delle dimensioni del Galles; oggigiorno, la maggior parte delle poche migliaia di persone che rimangono si sono ritirate sulle montagne per preservare la propria cultura a fronte delle incursioni dei colonizzatori bianchi. Il territorio di 100.000 ettari loro assegnato è solo il 10% di quello di un tempo. È un luogo remoto, lontano dalle città, dalla droga, dall’economia del petrolio e dalla guerriglia che divide con la sua violenza la Colombia delle pianure. Un vecchio con una borsa di corda in spalla e mani tinte dai frutti ci chiama dal limitare di un gruppo di banani, urlando per richiamare l’attenzione di Betencaro, il figlio che conosce lo spagnolo. La fisionomia tarchiata e grassottella di Betencaro, insieme ad una stretta di mano tra le più delicate e alla curiosità fanciullesca, ricorda quella di Pan. La passeggiata di 400 metri per raggiungere la sua casa attraverso la foresta richiede un’ora, dal momento che egli si arresta ogni pochi metri per mostrarci il suo mondo. Inchinatosi, raccoglie e sfoglia una pianta conservandone solo la parte interna, che subito ci offre: «Ecco quel che mangiamo». Quindi, raccolta una foglia, piegatala in quattro come macrame e fissatala agli angoli con un’erba spinosa, aggiunge: «Ed ecco un piatto» «Questa radice, invece, è una medicina per lo stomaco. Forza, assaggiatela: è anestetica». Infatti, la bocca diviene insensibile nel giro di pochi secondi. Dopo avere emesso richiami che imitano il verso degli uccelli e delle rane, mostra dove si può trovare il miele afrodisiaco.

Nella foresta non c’è nulla che Betencaro e gli U’wa non usino. Con queste bacche si fa il sapone; con quel fungo (e addita un albero) si accende il fuoco. Con quest’arbusto si costruiscono mobili, e con quell’altro si confezionano borse. Ecco un rampicante adatto per fare le corde degli archi. Qui vivono le cuchi-cuchi (un tipo di scimmia).

Mangiamo la corteccia e le bacche, le radici, i tuberi, i semi, i frutti e le foglie. Betencaro se la ride, raggiante per la sua sensazione d’autonomia. Per lui ogni cosa è utile, in questo Giardino dell’Eden tra le nuvole. Ad eccezione d’una pianta che produce un piccolo fiore bianco. «Hah!» dice, sradicandola e gettandola a terra con disappunto: «Questa l’hanno portata i Cristiani, ma non serve a nulla».

Arriviamo alla sua casa che, come quella di suo padre, è circondata da un caos di arbusti di coca, di banani e di alberi da frutta. A Betencaro spiace di non poterci far entrare ma, sostiene, renderemmo inquieti gli dei che determinano le sue azioni e il suo stesso pensiero. Dovrebbe chiamare un wedhaiya (il leader spirituale degli U’wa) perché soffi sui nostri abiti, ci purifichi e impedisca alla nostra cultura di contaminare la sua casa [ecco, a proposito di razzismo… - N.d.T.]. Così ci sediamo all’esterno e parliamo di quel che più d’ogni altra cosa occupa la mente degli U’wa. Il petrolio.

Centosessanta chilometri ad est, dove il fiume Cobaria nasce nello stato di Arauca prima di scorrere verso la pianura alluvionale interna, c’è il campo petrolifero di Caño Limon. È uno dei più grandi del mondo, con oltre 1200 milioni di barili di petrolio, e garantisce alla Colombia entrate per centinaia di milioni di dollari all’anno. Il giacimento è in concessione alla compagnia petrolifera statunitense Occidental (Oxy), che è socia alla pari con la compagnia anglo-olandese Shell. Ecopetrol, la compagnia petrolifera statale colombiana, dispone d’una quota più ridotta.

I mondi diametralmente opposti degli U’wa e delle compagnie petrolifere — quello del consumismo e quello del misticismo, quello delle grandi compagnie e quello dell’autosufficienza — collidono in modo terribile in Sud America, e in particolare in quei Paesi che sono sul punto di prendere il posto del Medio Oriente come fonte prediletta di petrolio per gli Stati Uniti, ovvero Colombia, Perù ed Ecuador. Mentre gli U’wa dipendono dall’inaccessibilità del proprio habitat per la protezione della propria cultura, le compagnie petrolifere proteggono i 5000 ettari in loro concessione con recinzioni di filo spinato alte tre metri e con miglia di steccati d’acciaio. Oxy e Shell pagano una “tassa di guerra” di 1 dollaro a barile (circa 180.000 dollari al giorno) per avere protezione da aprte dell’esercito colombiano contro le crescenti operazioni di guerriglia. A Caño Limon veniamo accolti da giovani dall’aspetto nervoso armati di mitra, che passano le loro giornate in guardiole di cemento segnate dai proiettili. Anche i rappresentati della Oxy ci stanno aspettando. Nonostante fossimo attesi, ci sono voluti mezz’ora e cinque chiamate via radio e telefono cellulare per superare tre serie di cancelli di sicurezza e accedere a un complesso coloniale talmente curato da sembrare a un villaggio del Club Mediterranee. Ci sono piscine, percorsi ginnici, campi da tennis e da squash, palestre, ristoranti, un ospedale, aree d’atterraggio per elicotteri, negozi. Tutto deve essere portato da fuori per provvedere alle necessità dei 150 lavoratori petroliferi che vivono qui per mesi alla volta, non osando uscire per il timore di essere uccisi o rapiti dai guerriglieri. È come uno strano incrocio tra una zona di guerra e un villaggio vacanze.

Le foto e le immagini sui muri celebrano la velocità, la potenza e, soprattutto, il trionfo della produzione di petrolio e il dominio delle compagnie petrolifere sulla natura. Il fiume è stato raddrizzato, sono state spostate milioni di tonnellate di terreno, alcuni laghi sono stati riempiti e ne sono stati creati dei nuovi. Questo è il grande oleodotto che attraversa le montagne per esportare il petrolio.

Al livello di produzione attuale, alla Shell e alla Oxy si prospettano solo altri dieci anni di sfruttamento del Caño Limon, e con il profilarsi della fine per questo redditizio giacimento, esse sono in cerca di nuovi siti. Quelle compagnie hanno già ottenuto dal governo colombiano le concessioni per l’esplorazione e lo sfruttamento di un’ampia porzione di territorio denominata Samore. Il problema è che Samore comprende anche una parte non irrilevante del territorio attuale degli U’wa, oltre a molte delle terre dei loro antenati.

Le compagnie hanno già speso 16 miliardi di dollari per gli studi sismici, studi che hanno rivelato che Samore contiene tanto petrolio quanto Caño Limon. Ma per gli U’wa, ogni incursione sul loro territorio sarebbe devastante, e la loro risposta è categorica: i leader tribali dicono che, se e quando Shell e Oxy dovessero spostare le attività estrattive sulle montagne, molti U’wa praticherebbero un suicidio rituale di massa gettandosi da una rupe sacra chiamata rupe della morte. Per gli U’wa si tratterebbe di un atto positivo — meglio morire dignità e cultura intatte che veder distrutto il proprio mondo.

Il suicidio rituale di massa fa parte della cultura degli U’wa. La storia della tribù, tramandata oralmente, racconta come nel XVI secolo una grande comunità U’wa in fuga dagli Spagnoli giunse alla rupe della morte. L’intero territorio degli U’wa è considerato sacro, ma ci sono alcune zone, tra le quali la rupe della morte, dove nessuno può andare. La storia degli U’wa riporta che, essendosi trovati costretti ad andare in quel luogo proibito, i membri della tribù misero i propri bambini in vasi di terracotta e li gettarono dalla rupe, per poi seguirli in massa in un suicidio collettivo. Se gli U’wa mettessero in pratica la propria minaccia, tornerebbero nuovamente alla rupe della morte.

Secondo Rodrigo Villamizar, l’ex-ministro delle risorse minerarie dimessosi in agosto in seguito ad uno scandalo per corruzione, la decisione degli U’wa costituisce per il governo un “dilemma filosofico” che minaccia di diventare un incidente diplomatico internazionale. James Niehaus, vice-presidente della Oxy Worldwide Production in California, lo definisce “tragico”. Gli U’wa dicono che sarebbe la fine del mondo, e i Colombiani sono orripilati. In un recente viaggio a Londra, Villamizar ha detto: «Mio figlio mi chiede “Papà, farai davvero saltare gli Indiani dalla rupe?”».

La costituzione impone che le 84 tribù indigene della Colombia siano tutelate, ma il Paese ha anche il dovere di sviluppare le proprie risorse a beneficio di tutti. È impossibile trovare un metodo per far quadrare il cerchio, poiché gli U’wa non vogliono risarcimenti economici, né sviluppo, né qualsiasi altra cosa che l’economia neo-liberale possa offrire. Vogliono semplicemente essere lasciati in pace, come la tribù dei Kogui nel Nord del Paese, che si è completamente sottratta ai contatti con la società bianca. Essi affermano che lo stile di vita degli U’wa non è negoziabile. È una protesta pacifica estrema.

Ma sono in ballo miliardi di dollari, e il petrolio è oggi il perno delle esportazioni colombiane. Gli U’wa sono semi-autonomi, e le loro terre sono protette, ma non detengono diritti minerari. La massima corte costituzionale colombiana in febbraio ha sentenziato che la Occidental e il governo erano colpevoli di violare il diritto fondamentale degli U’wa alla consultazione e che minacciavano l’identità etnica, culturale, sociale ed economica di quella tribù. Nel giro di alcune settimane, però, la massima corte amministrativa ha ribaltato quel verdetto, ripristinando i diritti minerari della Oxy/Shell. La posizione legale attuale è che i gacimenti di Samore potranno essere sfruttati in qualunque momento Shell e Oxy decidano di farlo. Il risultato è una tesa presa di distanze politiche, con le compagnie e il governo che credono di poter ancora convincere gli U’wa ad accettare lo sfruttamento petrolifero della loro terra.

«Nessuno si è mai trovato di fronte ad un caso simile prima», dice Eduardo Munoz-Gomez, ministro presso l’ambasciata colombiana a Londra. «Non possiamo permetterci che si suicidi neppure una sola persona».

L’atteggiamento della Oxy è molto più duro. La minaccia di suicidio è poco più di una finta, “un’intimidazione”, come dice Gerardo Vargas, funzionario delle relazioni sociali della Oxy di Arauca. Inoltre, sostiene la compagnia, non esiste alcuna prova scritta della veridicità del suicidio degli U’wa nel XVI secolo. «Gli U’wa non salteranno», dice Vargas. «È più facile che mi suicidi io che loro. Li conosco. Il suicidio non fa parte della filosofia degli U’wa. Si sono lasciati mettere all’angolo. Uno dei problemi della loro cultura è che non riescono mai a mettersi d’accordo. Sono completamente individualisti».

Ma, di preciso, a chi si rivolge la Oxy? Varga sostiene che la compagnia ha continuamente “negoziato” e “parlato” con gli U’wa fin dal momento della presentazione della domanda nel 1985. Gli U’wa, dice, erano sul punto di firmare un accordo nel 1993. Li considera suoi amici. La realtà è che la Oxy ha parlato sistematicamente solo con un piccolo e geograficamente isolato gruppo di U’wa, i cui membri sono tutti poveri e più o meno integrati nella società bianca. La compagnia non ha parlato ad alcun leader spirituale e non ha mai visitato le principali comunità U’wa, né i loro centri di potere. Solo cinque persone in una comunità di diverse migliaia sembrano pronte a dire di voler scegliere il petrolio. Tutti e cinque hanno dei legami con la Oxy. Solo uno di essi parla la lingua U’wa, e quattro vivono in città. A maggio, in una riunione in Bogotá, questi cinque erano i “rappresentanti della comunità U’wa” e discutevano la situazione con un gruppo di senatori. Erano presenti anche dei dirigenti della Oxy, un antropologo pagato dal governo, il presidente della compagnia petrolifera di Stato Ecopetrol e tre ministri — quello delle risorse minerarie, quello dell’interno e quello dell’ambiente. I cinque “rappresentanti degli U’wa” firmarono un documento nel quale si affermava che erano a favore dello sfruttamento petrolifero, fatte salve alcune condizioni: la protezione dell’ambiente, l’istituzione di programmi sociali e lo “sviluppo sostenibile”.

Però recentemente, di fronte a richieste più pressanti, una di loro ha detto di essere «non esattamente» a favore dello sfruttamento petrolifero delle terre degli U’wa. Ella vede piuttosto se stessa come una che cerca di trovare una soluzione e di evitare i conflitti.

Solo ad una o due persone provenienti da fuori è stato permesso di accedere liberamente alle comunità U’wa principali e al wedhaiya. Ann Osborn, un’antropologa dell’Università di Boston, è stata in Colombia nel 1958, quando aveva poco più di vent’anni, e negli anni ‘70 ed ‘80 ha passato oltre dieci anni con gli U’wa, portando il proprio aiuto alla battaglia della tribù per la difesa del proprio territorio. Osborn è morta nel 1988, ma l’opera della sua vita sono due libri che descrivono una società complessa e mistica con profonde radici nei rituali e nella mitologia, guidata dal più puro della tribù — il wedhaiya, l’eletto. Osborn riporta che gli U’wa attribuiscono un valore spirituale ad ogni cosa. Essi credono di essere al centro della terra intesa come essere vivente, e di perpetuare la vita proteggendola. Facendo eco alla teoria di James Lovelock, inerente Gaia e una radicalismo scientifico per il quale la Terra è olisticamente un organismo vivente, gli U’wa dicono che ogni cosa — dalla terra, agli alberi, alle rocce, ai fiumi, al cielo e a qualsiasi luogo — è viva e, di conseguenza, sacra. Gli U’wa proteggono il territorio non solo in senso ambientalmente stretto — ovvero non sprecando, né inquinando, né prendendo più di quanto la terra possa offrire senza subire un danno — ma anche con preghiere e danze rituali. Come gli Aborigeni australiani hanno i loro canti, così gli U’wa rinnovano quotidianamente la creazione del mondo con la recitazione dei miti e dei nomi dei luoghi. Essi mantengono vivo il mondo cantandolo, alla lettera. Anche gli uccelli creano dei luoghi cantando i nomi dei luoghi sopra ai quali volano. Tutto quel che gli U’wa fanno o pensano, diceva Osborn, è orientato a “proteggere e perpetuare la vita”.

Osborn descrive un mondo vincolato dal suo stesso ambiente. Gli U’wa più legati alla tradizione praticano ancora l’agricoltura del “taglia e brucia”, spostandosi verso quote maggiori o minori a seconda della stagione. I loro molti miti vengono celebrati su base stagionale, accompagnati da rituali guidati dal wedhaiya. Sebbene la tribù nell’ambito della riserva abbia terra appena sufficiente, si tratta in gran parte di un mondo stabile, in contrasto con quella che i capi U’wa definiscono la “mutevole” natura della società bianca.

Secondo la loro cosmologia, il mondo degli U’wa ha un suo corrispettivo speculare sotterraneo. In questo universo a rovescio vive un popolo ombra, un alter ego di coloro che vivono in superficie. Nel mondo sotterraneo, il sole nasce a ovest e tramonta a est. Osborn ha scritto: «tutto ciò ha a che fare con il mondo della psiche e coi diversi livelli della mente conscia ed inconscia».

Il senso del mistero è in ogni luogo. Al raggiungimento della pubertà, le giovani donne U’wa indossano copricapi, i cocaras, confezionati con foglie giganti che permettono di vedere unicamente da una piccola fessura sul davanti. Esse li indossano fino a quando qualcuno chiede loro di sposarle, il che può richiedere quattro anni o più. Ci sono poi i dodici menhir, grandi pietre come quelle di Stonehenge, che Osborn credeva fossero i pilastri del mondo spirituale degli U’wa. Il mito degli U’wa asserisce che quando l’ultimo sarà caduto, il mondo avrà termine. Al momento ne restano in piedi soltanto due.

E a proposito del petrolio? Osborn non lo cita, ma gli U’wa dicono che da sempre hanno una parola per definirlo — ruiria. Edgar Mendez, un antropologo che ha lavorato per due anni con gli U’wa, dice che «per loro, costituisce il sangue della Madre Terra, le vene del mondo. L’invasione di un altro mondo nel loro territorio — in superficie o nel sottosuolo — significa la morte. Estrarlo farebbe a pezzi il loro mondo spirituale».

Ritorniamo dalle montagne, incespicando nel buio, essendo riusciti a malapena a ottenere l’accesso alle comunità U’wa principali. Una famiglia U’wa di fondovalle che coltiva una fattoria di un vecchio colono sta arrostendo alla griglia un pepe, una particolare specie di roditore semiaddomesticato. Berichá Kubar’uwa, presidente del tradizionale consiglio U’wa, si dondola in un’amaca con un bambino. In tasca ha un insetto “orologio” che fischia le ore degli U’wa. «Prima che arrivassero gli Spagnoli, avevamo molte ore», ricorda pensosamente.

Berichá è stanco e sospira: «Le comunità moriranno. Non possiamo dare il nostro consenso all’estrazione del petrolio. Non si può vendere la Madre Luna. Non vendiamo neppure il nostro legname, né il nostro bestiame, come potremmo voler tentare di vendere il sangue della Madre Terra? Per noi la Terra è sacra: non è fatta per essere violata, sfruttata o contrattata; è fatta per prendersene cura, per preservarla. Il governo siederà con noi per vedere come potremmo convivere con la Oxy e con le esplorazioni petrolifere sul nostro territorio, senza che la nostra cultura venga distrutta. Ma per noi, è impossibile. Noi crediamo che il sole e la luna lavorino in accordo con la Terra perché la essa ha il suo sangue. Succhiando il sangue, danneggeremmo la Terra, provocando degli squilibri».

Quest’anno, Berichá e Mendez hanno raggiunto la California in aereo su richiesta di un piccolo gruppo ambientalista statunitense per incontrare gli alti dirigenti della Oxy nel loro quartier generale. Berichá si è seduto sulla riva dell’Oceano Pacifico, lo ha studiato per diverse ore, quindi ha tentato di intonare i suoi canti tradizionali per capire cosa la sua storia avesse da raccontare. Ha detto agli uomini del petrolio come la Terra sia connessa al sole e alla luna, ma essi non hanno sentito nulla che potessero comprendere.

Gli U’wa credono di essere condannati perché estrarre il petrolio significherebbe privare la Terra del suo sangue. Sono preparati a morire per le loro convinzioni, ma sono anche sempre più consapevoli che, in termini freddamente pratici, è più probabile che la fine effettiva della loro tribù sarà dovuta alla guerriglia che accompagna l’industria petrolifera in Colombia. Non avranno alcun modo concreto per difendersi.

All’inizio di luglio, la guerra ha quasi toccato gli U’wa che vivono nella piccola comunità di Casa Roja. Alle 9 del mattino dell’1 luglio, una colonna di trenta uomini armati, i primi guerriglieri mai visti in quella zona, è giunta seguendo il sentiero. Una pattuglia militare li attendeva. Due persone sono morte in un breve conflitto a fuoco che ha avuto termine quando un aereo ha sganciato quattro bombe a pochi metri dalle case. Un’U’wa del villaggio, Yaquie, ci mostra i fori dei proiettili in tre dei muri della sua casa. «Se arriverà il petrolio, avremo sempre più cose come questa. È inevitabile. Moriremo».

Yaquie e gli altri U’wa basano le proprie paure su quanto è accaduto in altri giacimenti petroliferi, particolarmente in quello di Caño Limo. Un recente rapporto — preparato dalle associazioni locali, dalle chiese, da gruppi di indigeni e di persone che si occupano di diriti umani — documenta la realtà della vita nell’area di Caño Limon dal momento in cui è iniziato lo sfruttamento petrolifero. Appena quindici anni fa, quell’area attrasse decine di migliaia di migranti, che vi si riversarono in cerca di lavoro. Con essi giunsero due intere brigate dell’esercito colombiano pagate dalla Shell e dalla Oxy. Amnesty International e alcuni gruppi colombiani dediti alla tutela dei diritti umani accusano oggi quei militari di avere commesso delle atrocità.

Il petrolio ha attirato anche, come mosche sul miele, i due principali gruppi di guerriglieri della Colombia, i bene armati ELN e FARC. Sempre in quell’area ci sono squadre della morte paramilitari filogovernative pagate in modo non ufficiale dai militari o dalla polizia. In Arauca, si stima che oggigiorno circa 6000 persone si guadagnino da vivere per mezzo di assassini, rapimenti ed estorsioni.

La militarizzazione della zona ha dato luogo ad una guerra feudale. I registri del governo riportano che, nell’ultimo anno, ci sono stati 38 omicidi, 18 massacri, 31 casi di tortura, 44 rapimenti, 151 detenzioni illegali, 360 casi di intimidazione, 150 deportazioni e una scomparsa. Un’inchiesta giudiziaria documenta ulteriori omicidi, detenzioni illegali e violazioni dei diritti umani. Pochi credono che queste cifre rappresentino anche solo la metà delle atrocità verificatesi in realtà.

Il governo, le compagnie petrolifere e le autorità locali dicono che la guerra va peggiorando. L’oleodotto di 600 chilometri — pagato dalla Shell e dalla Oxy e gestito dalla Ecopetrol — che parte da Caño Limon e porta oltre la metà del petrolio colombiano sulla costa caraibica è stato minato e bombardato 473 volte dal momento del suo completamento, avvenuto nel 1986. Ci sono stati 47 attacchi solo nei primi sei mesi del 1997. La Oxy afferma che il milione e mezzo di barili di petrolio sversati durante i bombardamenti hanno provocato un “irreparabile inquinamento” ambientale. Nel loro insieme, essi costituiscono il sesto maggior sversamento di petrolio nella storia. Molti lavoratori del settore sono stati uccisi. Disgraziatamente, afferma la compagnia, ELN e FARC si sono coalizzati contro di loro.

Anche la situazione ecologica e sociale è preoccupante. Le associazioni e le chiese locali hanno documentato gli effetti collaterali dello sfruttamento petrolifero della zona. Essi comprendono invasione del territorio, inquinamento dell’aria, dei fiumi e del suolo, perdita dei laghi considerati sacri, perdita di volatili, degrado del territorio e cambiamento climatico. Con questi problemi ecologici è giunta anche la disintegrazione della società — prostituzione, droga, alcolismo, malnutrizione, delinquenza e disgregazione sociale. I nomadi Guahibos, il solo gruppo indigeno che viveva nell’area quando giunsero gli uomini del petrolio, sono stati ridotti all’accattonaggio. Uno studio condotto per parte degli U’wa afferma: «La vita era serena prima del petrolio. Oggi… la gente sta dimenticando i principi fondamentali dello spirito di gruppo e non è in grado di adattarsi… Con la contaminazione del territorio è giunta anche la contaminazione culturale e spirituale». Questo pone la Oxy in una situazione ambigua. Mentre deve tenere informata la comunità internazionale e i mercati finanziari circa i ritardi nella produzione e i problemi con la guerriglia, essa deve presentare una faccia completamente diversa ai Colombiani quando le viene chiesto se porterà una destabilizzazione sociale dello stesso genere in Samore, e in particolare nel territorio degli U’wa, qualora dovesse cominciare a produrre petrolio in quel luogo. Piuttosto che accettare la responsabilità di quel caos, la Oxy sostiene d’essere un “buon vicino”, e mette in risalto le iniziative sociali e finanziarie che ha progettato per aiutare le comunità locali. La compagnia dice che negli ultimi dodici anni ha pagato 100 milioni di dollari di tasse al governo locale in Caño Limon, ma è, reticente circa quel che accadrà alla regione quando il petrolio finirà.

La Oxy e la Shell attribuiscono alla guerriglia la responsabilità della situazione difficile degli U’wa. Niehaus afferma: «Gli U’wa sono praticamente ostaggi a casa loro, controllati da gruppi coinvolti in azioni illegali ed omicide, compresi il traffico d’armi e di droga. Come risultato, viene loro impedito di decidere, senza interferenze ed intimidazioni, del loro stesso futuro — viene loro impedito di prendere quelle decisioni che potrebbero fare la differenza tra la sopravvivenza e la scomparsa della loro comunità». Gli U’wa replicano che non hanno avuto alcun contatto con i guerriglieri e comunque che questi ultimi, in massima parte, sostengono i loro sforzi. La guerriglia, affermano, prende di mira le compagnie petrolifere, non loro.

La Oxy ammette dunque che gli stessi disastri sociali ed ecologici si verificheranno a Samore se essi e la Shell avvieranno la produzione? Applicando la logica tipica di una enorme compagnia californiana, Niehaus dice che gli U’wa hanno bisogno del petrolio. Senza lo sviluppo portato dalle compagnie, egli sostiene, gli U’wa sono condannati: «I giovani continueranno a lasciare la zona per cercare opportunità da qualche altra parte, e le comunità, non saranno semplicemente in grado di portare avanti il loro stile di vita tradizionale. La semplice realà è che la società degli U’wa sta cambiando per effetto di complessi fattori socio-economici che non hanno nulla a che fare con lo sviluppo petrolifero». Il governo neoliberale non riesce ancora a credere che gli U’wa daranno seguito alla loro minaccia di suicidio collettivo, né che lo sviluppo petrolifero verrà fermato.

Nonostante ciò la Oxy afferma che, ricorrendo a tecnologie avanzate per procedere a trivellazioni orizzontali dalle zone adiacenti, potrebbe essere in grado di estrarre il petrolio senza doversi insediare sulle terre degli U’wa. Gli U’wa non sono rimasti impressionati dall’idea e hanno alzato la posta in gioco dicendo che commetteranno suicidio qualora anche una sola goccia di petrolio venisse estratta dal loro antico territorio, e stanno cercando di ampliare la zona a loro ascritta.

Per la Oxy e la Shell deve risultare piuttosto sconcertante. Nell’economia globale del petrolio e della diplomazia internazionale, ciascuno di coloro coi quali hanno avuto a che fare fino ad ora aveva il suo prezzo; si poteva trattare su tutto, ed in ogni situazione era possibile trovare una mediazione. La posizione degli U’wa, invece, mette in dubbio perfino la loro stessa presenza e dà risalto alle loro mancanze. «Parlano un altro linguaggio e parlano da un altro mondo», dice Mendez.

Martin von Hildebrand, l’ex ministro colombiano dell’ambiente che nel 1991 ha impostato le leggi costituzionali sulla tutela dei diritti dei popoli indigeni e che ora lavora nella Fondazione Gaia di Bogotá, dice: «Le compagnie parlano di responsabilità sociale, ma rifiutano di accettare la responsabilità per l’impatto del proprio lavoro. In ogni altro luogo, dal Sud America all’Africa, hanno ottenuto quel che volevano traendo vantaggio dalla debolezza delle istituzioni, mettendo gli uni contro gli altri, dividendo la gente, facendo leva sui più giovani ed offrendo doni. Questa volta non sta funzionando.»

Von Hildebrand afferma che le perline di un tempo sono diventate le strade e le scuole di oggi. Gli U’wa sono tenaci, preferirebbero morire dignitosamente piuttosto che perdere la propria dignità e il proprio scopo, che consiste nel mantenere in vita il mondo. Laddove l’insieme della società colombiana viene destabilizzata dalla fretta di entrare a far parte dell’economia globale, essi pongono domande alle quali non è possibile dare risposta.

In Casa Roja sta cadendo la calda pioggia del pomeriggio. D, la figlia di un wedhaiya che desidera rimanere anonima per timore di rappresaglie, dice che la situazione è confusa e pericolosa. Chiede, non ci sono semplici verità e leggi valide sempre e per tutti? Leggi fondamentali che non possono essere cambiate per un capriccio degli uomini che stanno a Los Angeles, Londra o Bogotá?

«Canto le canzoni tradizionali ai miei figli», dice. «Insegno loro che ogni cosa è sacra e interconnessa. Come posso dire alla Shell e alla Oxy che prendere il petrolio è per noi peggio che uccidere la propria stessa madre? Se uccidete la Terra, non sopravviverà nessuno. Non voglio morire. No, non è una finta».


Traduzione italiana di Carpanix — visitate www.oilcrash.com per leggere altri articoli riferiti a sovrappopolazione e sovraffollamento.